È possibile cercare la pace fornendo armi a una parte in causa di un conflitto? La domanda non riguarda solo quanto di tragico sta accadendo in Ucraina, ma ha un senso autonomo da ogni contesto e in prima battuta è necessario rispondere secondo un principio che ci sembra incontrovertibile: no, non si può.
Contestualizzare tuttavia è necessario e qui non ne negheremo l’importanza. Tuttavia, una volta elencato l’ovvio, cioè che la Russia è il paese aggressore e che l’Ucraina è il paese aggredito, che l’aggressione di cui parliamo è ingiustificabile sotto ogni aspetto e che le vittime incolpevoli di ogni guerra meritano giustizia; una volta elencato questo e tanto altro, la domanda posta in principio di questa riflessione risuona ancora in attesa dell’unica risposta possibile. Può terminare mai una guerra tra una superpotenza nucleare e un altro paese se quest’ultimo è rifornito di armi di ogni genere? Ancora una volta la risposta s’impone: no, non può.
Molti purtroppo, sostengono una tesi opposta. Siano essi capi di governo, diplomatici, leader politici e navigati giornalisti, oppure cittadini che accedono a una visione parziale della vicenda, inquinata da quanto prima abbiamo elencato: tutti questi si assumono una responsabilità epocale di fronte al mondo, alle genti di ogni Paese e di fronte al futuro dei propri figli.
Per qualche decennio abbiamo vissuto l’illusione che la grande partita della geopolitica fosse terminata. Che una squadra l’avesse persa e che un’altra, tuttavia non l’avesse vinta. A noi cittadini comuni è stata restituita l’impressione di un pareggio dettato dalla storia, più che dai singoli eventi che l’hanno composta. Inutile dire che sbagliavamo e che il famoso “secolo delle idee” aveva ancora qualcosa da dire, sia pur nella degenerata forma del rancore ideologico ammantato di patriottismo.
Il nemico americano. Il nemico russo. La debole e inutile Europa. L’arroganza della Nato, il ritardo democratico – gravissimo – della Russia. Che ricetta si può mai comporre se gli ingredienti a disposizione sono e restano sempre questi ? La missione della diplomazia è, o almeno dovrebbe essere, riuscire a smussare pregiudizi e interessi contrapposti, colmare le differenze anche culturali con la Russia, in nome di uno scopo collettivo, globale, che ci appare addirittura banale definire assolutamente prioritario.
Si vis pacem, para bellum. Se vuoi la pace, prepara la guerra. Agitando questo brocardo si sostiene da più parti (in realtà da una parte sola) la necessità di armare oltre ogni ragione l’Ucraina. Si comprende il fascino della citazione latina, e si intercetta anche l’afflato marziale del principio. Ma di quale progresso si può vantare la nostra epoca se una controversia tra Stati nazionali si dovrebbe regolare in ossequio a un imperativo bellico vecchio di migliaia di anni ?
Non c’è bisogno di disturbare tattici e strateghi per comprendere che gettare benzina sul focolaio ucraino può avere come unica conseguenza quella di alimentare un incendio potenzialmente incontrollabile. Possiamo dirci già ben fortunati se fino a oggi il conflitto, per quanto penoso e gravissimo, è rimasto circoscritto, almeno in termini militari. Il rifornimento continuo di armi da parte dei Paesi Occidentali all’Ucraina può far allungare oltre modo i tempi del conflitto causando numerose perdite di vite umane soprattutto tra i civili, e può far innescare anche a causa di possibili incidenti con gli Stati confinanti, un allargamento del conflitto che renderebbe sempre più vicina e concreta la minaccia dell’uso di armi nucleari. Inoltre molto gravi sono ad aggi gli effetti che lo scontro tra i due blocchi (e usiamo questa tetra espressione non a caso né a cuor leggero) sta infliggendo già adesso all’economia di moltissimi Paesi, tra i quali il nostro figura in prima linea.
Non c’è nulla di cinico nell’affermare che la guerra dell’energia può fare più vittime di quelle che le armi cosiddette convenzionali stanno già mietendo. La condizione di dipendenza energetica nella quale il nostro Paese si trova dovrebbe suggerire molta più cautela di quanta fin qui è stata praticata. Sarebbe forse il caso di promuovere meno missioni alla ricerca di fornitori alternativi e proporci invece come interpreti di una azione diplomatica forte, intransigente e caparbia.
A questo proposito, concludendo, bisogna chiarire che la scelta responsabile della diplomazia non significa promuovere neutralità né tantomeno indifferenza. Anzi tutto l’opposto: la diplomazia rappresenta l’unica forma di “interventismo” che possa vantare qualche chance di successo. Di certo, però, non è credibile l’azione di Paesi che si volessero porre come forze di “interposizione diplomatica” se con la destra calzano la feluca e con la sinistra armano o sanzionano le parti in causa. Quali che siano le ragioni e i torti di entrambe.
Verrà il momento della individuazione delle responsabilità, ma per far sì che questo avvenga devono prima tacere le armi. Non c’è giustizia possibile nel clamore della guerra, nella pioggia di piombo o nell’afrore della cordite. Prima la pace: semplicemente, senza condizioni. Prima gli ucraini tornino nelle loro case, i bambini nelle scuole e i soldati nelle caserme. Poi parleremo del resto.